Ogni storia è in primo luogo una cronologia.
Henri-Jean Martin
Quando cambiano i costumi cambia la scrittura
Anonimo cinese
La forma dei caratteri deriva solo dalle contingenze della storia, o presenta anche alcuni tratti universali, che riflettono la nostra architettura cerebrale?
Stanislas Dehaene
La scrittura compare a partire da circa 5400 anni fa, in quattro continenti, nel corso di tre millenni: in Medio Oriente , in Egitto, in Cina e nell’America precolombiana, seguendo in genere le stesse fasi evolutive (Henri-Jean Martin, 1990). Passando da una fase pittografica in cui rappresenta l’oggetto ad una ideografica in cui rappresenta un concetto in una forma visiva man mano sempre più semplificata e stilizzata. In seguito i sistemi di tipo pittografico-ideografico mediorientali ed egizi subirono un’evoluzione verso il fonetismo. Separano così i segni dal significato iconico, a favore di un valore prevalentemente sillabico.
L’evoluzione verso le attuali forme di rappresentazione grafica si compie nell’area mediterranea nel XII e XI secolo presso città fenicie, dove si svilupparono i primi sistemi di scrittura alfabetica: ogni singolo suono del parlato viene rappresentato da un solo segno, separandosi così da qualunque significato iconico.
Se la nostra organizzazione cerebrale impone dei vincoli alle variazioni culturali, dovremmo riscontrare, considerando l’insieme di sistemi di scrittura che l’umanità ha inventato, molte caratteristiche comuni che rivelano i vincoli del nostro apparato cerebrale (Dehaene,2009)
1.0 Scrittura cuneiforme
Verso il 3300 a.C i Sumeri svilupparono in Mesopotamia (l’attuale Iraq) un sistema di pittogrammi impiegati soprattutto per registrazioni contabili di consegne o assegnazioni di bestiame, tessuti, generi alimentari come dimostrato dal ritrovamento delle tavolette di argilla presso l’antica città di Uruk (odierna Warka).
I 1.500 pittogrammi rappresentavano oggetti facili da riconoscere come una testa di bue, una parte del corpo umano, una spiga di cereale, ma non concetti astratti.
Non potendo aumentare indefinitivamente i caratteri i Sumeri elaborarono un tipo di scrittura più funzionale impiegando ideogrammi anziché pittogrammi.
Successivamente dalla scrittura sumerica arcaica derivò la sumero-accadica o babilonese che iniziò ad utilizzare fonogrammi, o sillabogrammi, cioè a scomporre le parole in sillabe attribuendovi un segno scritto convenzionale.
Gli scribi imprimevano nell’argilla la punta di uno stilo dalla sezione triangolare, dando alle parole scritte l’aspetto di chiodi, da cui deriverebbe il suo nome latino ‘cuneus’ (chiodo) la scrittura cuneiforme.
1.1 Evoluzione dei segni: quadrati di significato
Lo storico e sumerologo Samuel Noah Kramer (1897-1990) ha tracciato l’evoluzione dei segni fondamentali dalla scrittura sumerica ideografica delle origini (1) attraverso la rotazione di 9o gradi (2), alla scrittura arcaica (3-4), ai primi segni cuneiformi fino alla sua versione assira (8).
Al chiaro scopo di ottenere una più rapida e migliore incisione dei segni nell’argilla, gli scribi ruotarono le immagini, in origine verticali, di 90 gradi a sinistra, in modo che si trovassero a giacere sul dorso (Uhlig, 1979)
Ne risultò modificato anche il senso della scrittura, i caratteri vennero allineati da sinistra a destra in una serie di linee successive e non più su colonne verticali da destra a sinistra.
Queste colonne erano dapprima divise in caselle, che si susseguivano dall’alto verso il basso, dove i caratteri riconducibili a un medesimo significato erano raggruppati. Per l’assirologo Jean-Marie Durand, se queste casselle rappresentavano unità di significato “era logico che lo scriba, a partire dal momento in cui annota solo ciò che il suo spazio gli concede, distribuisca i segni nello spazio dato allo scritto, non secondo l’ordine con cui vengono pronunciati, ma secondo un criterio riempitivo che si potrebbe, per comodità, chiamare estetico o utilitario”.
L’utilizzo di un criterio riempitivo lo ritroviamo anche nei geroglifi egiziani che erano combinati in modo da rientrare in un’immaginaria casella quadrata e indirettamente la stessa forma che avrebbero assunto man mano i caratteri cinesi. Con l’introduzione dei fonogrammi fu possibile ridurre notevolmente il numero dei segni dai 1200 pittogrammi iniziali ad un misto di ideogrammi e sillabogrammi di 800 unità nel periodo di Fara-Shuruppak (circa 2600 a.C.) e circa 500 intorno al 2000 a.C.
Il segno che sta per « astro » indica ora «cielo» ora «dio» ; il sole significa contemporaneamente « giorno », « luminoso », «benevolo », «sereno » (Uhlig, 1979).
Ad esempio il segno “an” è raffigurato da una stella stilizzata (astro) e può essere usato come ideogramma per rappresentare il “cielo”, oppure come sillabogramma per scrivere la prima parte della parola “an-za-gar” (torre) inoltre possiamo leggerlo come “dingir” con il significato di “dio”.
L’utilizzo di due sistemi, uno basato sul significato (ideogrammi) e l’altro sui suoni (sillabogrammi), non poteva che creare ambiguità: come poteva il lettore vedendo una stella comprendere, se lo scriba intedeva “dio” o “stella”?
I Sumeri introdussero allora dei determinativi con lo scopo di specificare la categoria semantica di appartenenza del carattere che accompagnavano. Per esempio “an” come determinativo indicava la divinità, il carattere “aratro” con “legna” l’oggetto aratro. Nonostante la riduzione dei segni impiegati la lettura e la scrittura rimanevano una prerogativa degli scribi che necessitavano lo stesso di anni di studio per poterli memorizzare e imparare a leggere e scrivere.
2.0 Scrittura geroglifica egiziana
Sotto la direzione dell’archeologo britannico James Edward Quibell (1867-1935), durante la stagione di scavi fra il 1897-98, venne ritrovata la Tavolozza di Narmer che esaltava l’impresa del re Narmer che unificando Alto e Basso Egitto diede il via alla I Dinastia.
Nella fascia in alto di entrambi i lati A e B abbiamo le due teste di vacca, identificabili con le teste della dea Hathor, al centro l’immagine stilizzata del palazzo reale (serekh) con all’interno il nome di Narmer (composto da due segni geroglifici n’r, il pesce-gatto e mr, il cesello).
Il sovrano indossa la corona dell’Alto Egitto mentre afferra un nemico per ucciderlo e nell’angolo in alto a destra il falco Horus regge una testa umana e sei fusti di papiro come simbolo della sconfitta del Basso Egitto (A2). A riprova della forza del sovrano ci sono due nemici nudi (A3) sottomessi come nella scena (B4) in cui Narmer rappresentato come un toro calpesta il nemico nudo.
La Tavolozza è un importante reperto filologico, in quanto costituisce uno dei primi esempi di scrittura geroglifica dell’Antico Egitto (3100-2160 a.C.).
2.1 Problemi di traduzione
Il problema nel tradurre la scrittura geroglifica risiedeva nelle poche informazioni in nostro possesso: ne avevano discusso superficialmente Erodoto (483-425 a.C.), lo storico Diodoro Siculo (90-27 a.C.), concordando che i segni geroglifici avessero un valore per lo più pittorico. Per un’opera più sistematica dobbiamo aspettare il sacerdote Horapollo (450-490 d.C. ) con il trattato “Hieroglyphica” , seppur con spiegazioni fantasiose, associa a più di 200 segni un significato.
Questo testo è l’unico documento sui geroglifici che ci è pervenuto dall’antichità, ma il suo autore considerandoli ideogrammi, condizionerà gli studi successivi fino all’arrivo del linguista francese Jean François Champollion (1790-1832) che trovò con l’aiuto della stele di Rosetta la chiave di traduzione per i geroglifi.
La Stele di Rosetta è una lastra di basalto nero dalla forma irregolare su cui erano presenti iscrizioni in tre lingue diverse di un decreto emesso il 27 marzo 196 a.C.
Le prime 14 righe erano scritte in caratteri geroglifici, le altre 32 righe in demotico e le ultime 54 in greco e le più immediate da tradurre:
Questo decreto sarà inciso in caratteri sacri,indigeni e greci su stele di pietra dura, che saranno erette in ogni tempio di primo, secondo e terzo ordine, accanto all’immagine de re eternamente vivente
Si comprese così che il testo trilingue equivalesse nel significato e sarebbe stato fondamentale per tradurre i geroglifi.
Il decreto era stato scritto nel 196 a.C. dai sacerdoti di Menfi in onore del faraone Tolomeo V Epifane (204-181 a.C. ) per commemorare i benefici al clero locale.
La lastra, alta circa 112 cm, larga 70 e spessa circa 28 cm, fu scoperta a luglio del 1799 nel Delta nord-occidentale a Rosetta, l’odierna città portuale Rashid, dai soldati napoleonici comandati dal tenente Pierre François Bouchard (1771-1822) che stavano scavando le fondamenta di una fortificazione.
La stele venne inviata ad Alessandria, ma dopo la sconfitta di Abukir per mano dell’ammiraglio Nelson, venne confiscata dagli Inglesi e, dal 1802, è esposta al British Museum di Londra.
Il primo a tentare la traduzione del testo egizio, nel 1802, fu Antoine Isaac Baron Sylvestre de Sacy (1758-1838) nella sua “Lettre au Citoyen Chaptal au sujet de l’inscription égyptienne du monument trouvé à Rosette”, ma fu il suo allievo Johan David Akerblad (1763-1819) ad identificare, non riuscendo però a tradurli, alcuni nomi di faraoni evidenziati all’interno di ovali a cui fu dato il nome di cartigli (in francese cartouches).
Le sue scoperte lo trassero però in inganno perché le parole individuate nel testo demotico erano alfabetiche e si convinse così che lo fosse l’intero testo.
2.2 Evoluzione dei segni
Nel 1815 il fisico inglese Thomas Young (1773-1829) comprese, come dimostra la sua corrispondenza con Sylvestre de Sacy, che la scrittura ieratica e demotica fossero semplificazioni derivate da quella geroglifica.
La scrittura ieratica era comparsa intorno al III millennio a.C. come sviluppo corsivo con lo scopo di aumentare la velocità di scrittura per redigere i documenti che riguardavano la vita pubblica e religiosa.
Invece la scrittura demotica, che Young chiamava “encoriale” cioè “indigeno”, ebbe origine da una semplificazione della ieratica e venne adottata, all’incirca nel 660 a.C. sotto Psammetico (fondatore della XXVI dinastia), dagli scribi. Durante l’epoca Greco-Romana divenne di uso comune (per questo demotica) fino alla fine del periodo romano (IV secolo d.C.).
Se nel tempo la scrittura egizia si era evoluta come si poteva tradurla? Come si poteva trovare una corrispondenza fra i caratteri geroglifici con le parole dei testi in demotico e greco? Nel 1814 Young ebbe l’intuizione di utilizzare i cartigli, contenenti sicuramente i nomi di sovrani, come metodo per trovare la corrispondenza fra i geroglifici ed i caratteri greci. In questo modo identificò il nome Tolomeo 13 volte nel testo demotico e 6 in quello geroglifico, più precisamente 3 volte nella forma appena vista e 3 in quella “Tolomeo sempre vivente, amato da Ptah” .
2.3 Mistero svelato
J. F. Champollion fu il primo a scoprire la chiave per tradurre i geroglifici con l’aiuto della stele di Rosetta, il papiro del Casati e l’obelisco di Philae, con iscrizioni i greco e geroglifico, che era stato fatto collocare da Tolomeo VIII (181-116 a.C) e dalla sua seconda moglie Cleopatra III in un tempio dedicato alla dea Iside.
L’obelisco venne scoperto in uno dei suoi viaggi (1815-22) dall’aristocratico inglese Wiliam John Bankes (1786-1855), che si dilettava nelle traduzioni di geroglifici, e nel 1821 fu acquistato e portato in Inghilterra dall’archeologo italiano Giovanni Belzoni (1778-1823) , nella sua tenuta di Kingston Lacy, dove vennero fatte diverse litografie (copie) del testo per condividerle con altri studiosi.
Il giorno del suo trentunesimo compleanno, il 23 dicembre del 1921, Champollion ebbe l’idea di contare i segni sulla stele scoprendo che ai 1419 segni geroglifici corrispondevano 486 parole del testo greco. Era evidendente che ad ogni segno non poteva corrispondere una paroala, cadeva così l’ipotesi che i segni fossero solo degli ideogrammi, doveva esserci altro, come si poteva risolvere tale mistero?
Nel gennaio del 1822 Champollion, tramite l’amico grecista Jean Letronne (1787-1848) ebbe una copia del testo dell’obelisco, si rese così conto che il cartiglio di Tolomeo (Ptolmes) era pressoché identico a quello sulla stele. Basandosi sulla parte greca dell’obelisco, notò anche un secondo cartiglio e suppose si trattasse del nome di Cleopatra (Kliopatra).
La supposizione era nata un anno prima quando l’italiano Casati aveva scoperto in un’anfora di terracotta, acquistata ad Abydos in Egitto, una collezione di papiri in demotico. Quando questi giunsero a Parigi, Champollion riconobbe alcuni cartigli molto simili a quelli del testo della stele con il nome di Tolomeo e quello che pensava fosse di Cleopatra.
Questi due cartigli avevano parecchi segni in comune , Champollion supponendo che la grafia dei due nomi all’interno dei cartigli fosse e Kliopatra e Ptolmes si rese subito conto che la lettera T aveva due segni per rappresentare lo stesso suono (omofonia). Inoltre avendo una formazione da linguista, comprese che lo scriba, nel dover rappresentare un nome straniero come Tolomeo, aveva per forza fatto ricorso ad un sistema di segni fonetici e che in caso di omofonia poteva adoperare segni diversi.
Facendo un ulteriore passo avanti Champollion notò che gli ultimi due segni del cartiglio di Cleopatra dovevano indicarne il genere e il determinativo: “femmina divina”.
La scoperta dell’esistenza di omofoni e l’impiego di determinativi spiegavano quindi la sovrabbondanza di segni geroglifici rispetto al testo greco svelando così il mistero.
2.4 Ideogrammi, fonogrammi e determinativi
I geroglifi, come i caratteri cuneiformi, potevano assumere valore di ideogrammi, di fonogrammi e determinativi con la funzione di ausilio visivo per chi leggeva e non si pronunciano. Possiamo quindi comporre una parola con due o più fonogrammi ed un ideogramma come determinativo per concluderla. Come sappiamo iniziamente il linguista Jean François Champollion (1790-1832) ritenne in modo erroneo che i geroglifi avessero solo valore di ideogramma, ma confrontando il conteggio dei segni del greco con quelli geroglifici, ebbe l’intuizione che potessero avere anche un valore fonetico.
A differenza della scrittura sumerica, la struttura di quella geroglifica è consonantica e non sapendo in che modo gli antichi Egizi pronunciassero la loro lingua le vocali sono inserite in modo convenzionale dopo ogni consonante. Dai fonogrammi siamo in grado di comprendere la pronuncia e possono rappresentare una consonante (unilitteri), due (bilitteri) o tre (trilitteri).
Nulla dunque avrebbe impedito agli scribi di creare un alfabeto consonantico come, per esempio, i Fenici avrebbero fatto più tardi. Essi, tuttavia, preferirono mettere il fonetismo al servizio di un simbolismo grafico, in particolare nei testi religiosi e storici (Henri-Jean Martin)
Prendiamo come esempio il primo segno geroglifico (Y3) che si riferisce a una tavolozza dei colori usata per scrivere, la stilo e il contenitore dell’acqua che serve per sciogliere l’inchiostro. Questo primo indizio visivo ci rimanda al fonogramma biletterale “sS” della parola sesh (scriba) mentre il determinativo uomo seduto (A1) chiarisce che la parola indica una persona, quindi la parola é scriba. Notiamo subito che, al contrario della scrittura cuneiforme, il determinativo segue il segno a cui si riferisce.
Nel secondo caso abbiamo ancora il segno della tavola con il resto del materiale (Y3), quindi abbiamo “sesh”, affiancato da un rotolo di papiro chiuso (Y1).
Il determinativo ci suggerisce che la parola riguarda un documento o esprimere l’azione di scrivere. Lo stesso segno impiegato come determinativo in un’altro contesto poteva significare altro: ad esempio l’uomo (A1) potrebbe riferirsi ad un nome di uomo o anche a un pronome.
Per quanto complicato possa sembrarci questo sistema era in grado di rappresentare 760 segni, di cui 220 di uso comune, sotto il medio regno (2040-1778 a.C.) permettendo di evitare agli scribi ogni ambiguità come il distinguere i termini omofoni.
L’egittologo brittanico Alan Gardiner (1879-1963) fu il primo a classificare i geroglifici in 26 gruppi ognuno rappresentato da una lettera dell’alfabeto anglosassone e da un numero progressivo per permetterne l’identificazione.
Nel nostro esempio abbiamo utilizzato oggetti provenienti dal gruppo Y impiegati per scrivere, giochi e musica e dal gruppo A all’uomo e alle sue occupazioni
3.0 Scrittura cinese
La civiltà cinese inizia nel neolitico e si svillupò prima a nord nel 1800 a.C. e poi con la dinastia Shang (1600-1046 a.C.) nel territorio che corrisponde alle attuali province di , Shanxi, Shaanxi e Henan dove vennero ritrovati nel 1899 nei pressi del villaggio Xiaotun oltre 3.000 frammenti di scudo di tartaruga e di scapole di cervo su cui gl’indovini avevano inciso circa 600 segni oracolari.
[…] l’aspetto dei caratteri che compaiono nelle iscrizioni oracolari risente in buona misura anche della tecnica utilizzata per tracciarli, l’incisione per mezzo di coltelli o punteruoli; non a caso nel loro disegno, incerto e impacciato, le linee sottili e diritte e gli angoli appuntiti sono privilegiati, e solo nell’ultimo periodo i tratti mostrano una certa tendenza a farsi più sicuri e sinuosi (Abbiati, 2017)
La scrittura cinese ha conosciuto un’evoluzione simile a quella sumerica: passando da una fase pittografica ad una caratterizzata dall’impiego polivalente di molti caratteri già in uso e una terza fase contraddistinta da processi di aggregazione delle unità grafiche (Abbiati, 2017).
3.1 Evoluzione del segno: dalle curve ai quadrati
Prendiamo l’esempio del carattere “cavallo” (mă) dalla sua forma pittorica (immagine 1-2) incisa sulle ossa oracolari (jiăgŭwén), si è passati ad una filiforme e curvilinea (immagine 3) di cui troviamo traccia nelle iscrizioni su bronzo che presero il nome di stile del Grande Sigillo (大篆 dàzhuàn) durante la dinastia Zhou (1110-722 a.C. )
L’imperatore Shi Huang (260-210 a.C. ), dopo aver unificato la Cina nel 221 a.C. e posto fine agli “stati combattenti”, emanò anche l’ordine di standardizzare i pesi, le misure, statuti legali e l’obbligo dell’uso della scrittura Qin.
Grazie al lavoro svolto dal ministo Li Si (246-208 a.C. ), che aveva curato un dizionario di 3.300 caratteri di uso comune, si giunse allo stile di scrittura del Piccolo Sigillo (小篆 xi ozhuàn) che era però poco pratico per i funzionari che dovevano trascrivere gli atti amministrativi e giudiziari perché caratterizzato da linee piuttosto curve e tondeggianti (immagine 4) ereditate dallo stile precedente.
Per venire incontro alle necessità dei funzionari del governo, durante la dinastia Qin (221-2016 a.C. ), si sviluppò un’altra forma di scrittura più semplice e meno “tortuosa” nota come stile degli scribi (隸書 lì shū). Allo stesso modo con cui in Egitto la forma demotica (lingua dei burocrati) era stata un semplificazione di quella ieratica (lingua dei sacerdoti).
Nei suoi 400 anni la dinastia Han (206 a.C. al 220 d.C.) stabilizzò il sistema feudale grazie all’ausilio dei funzionari (detti anche mandarini) e favorì il fiorire della letteratura, della poesia, della musica alla cui diffusione contribuì anche la scoperta della carta. Con l’inizio della dinastia Han i caratteri persero ogni radice pittografica assumendo una forma quadrata (immagine 5):
I tracciati tondeggianti furono raddrizzati, le curve si trasformarono in angoli, le linee continue vennero spezzate in tratti, così che il disegno complessivo ne risultò sensibilmente stillizzato (Abbiati,2017)
Lo stile clericale sarebbe stato perfezionato durante la dinastia Tang diventando infine quello regolare (楷書 kaishū ) (esempio nell’immagine 6) che sarebbe rimasto ufficiale fino alle semplificazioni del 1954 e del 1964 adottate dalla Repubblica popolare Cinese (esempio nell’immagine 7) per facilitare l’alfabetizzazione.
Si stima che alla fine della dinastia Shang ci fossero tra i 4.000 e i 5.000 caratteri, nel periodo degli Han 9.353 (dizionario Shuowen Jiezi) e nel tempo sono progessivamente aumentati.
Oggi, secondo il dizionario Hanyu Da Zidian, esisterebbero 54.678 caratteri, ma ne basterebbero 3.800 per leggere e comprendere il 99,9% di un testo normale scritto (Abbiati,2017).
4.0 Il paradosso del primate che sa leggere
Se il cervello non ha avuto il tempo di evolvere sotto la pressione dei vincoli della scrittura, è allora la scrittura che è evoluta per tenere conto dei vincoli del nostro cervello (Dehaene, 2009)
Nella storia della scrittura si è giunti molte volte alla spontanea elaborazione di un sistema misto di fonogrammi a supporto di una scrittua ideografica.
Perché tale scrittura mista, “morfo-fonologica”, è stata adotta così spesso? Perché sembra attirare le culture umane in maniera tanto duratura? Io vi vedo l’incontro di più vincoli, legati alla nostra memoria, alla nostra lingua, oltre che all connettività del nostro cervello (Dehaene, 2009).
La scrittura cuneiforme, geroglifica e ideografica imponevano un fortissimo carico alla memoria con l’invenzione dell’alfabetico fonetico fu possibile ridurre il carico di memoria permettendo così all’alfabetizzazione di diffondersi. Invece di ricordare 500 caratteri cuneiformi o gerogifici, o miglia di ideogrammi , il lettore del primo alfabeto dell’antichità greca doveva imparare solo una dozzina di fonogrammi, o lettere.
Se il cervello non ha avuto il tempo di evolversi in funzione della lettura-scrittura perché se ripercorriamo la storia della scrittura, dalla sua invenzione in Mesopotamia ad oggi, 5400 anni dal punto di vista filogenetico sono davvero un’istante. Invece da un punto di vista ontogenetico, dell’evoluzione dell’individuo, la scrittura deve essere assorbita dal cervello dei bambini in circa duemila giorni. Emerge dunque quello che il neuroscienziato Stanislas Dehaene hanno definito come il paradosso della lettura.
5.0 L’ipotesi del riciclaggio neuronale
Per risolvere questo paradosso, Dehaene e Cohen (2011) sostengono l’ipotesi del riciclaggio neurale (neuronal recycling):
Thus, learning to read must involve a ‘neuronal recycling’ process whereby pre-existing cortical systems are harnessed for the novel task of recognizing written words. […] reading acquisition should ‘encroach’ on particular areas of the cortex – those that possess the appropriate receptive fields to recognize the small contrasted shapes that are used as characters, and the appropriate connections to send this information to temporal lobe language areas. […]
Il riconoscimento delle parole scritte non ricorre a un’area cerebrale nuova, ma alla corteccia temporale inferiore che si è evoluta per l’identificazione visiva degli oggetti e dei volti.
Sappiamo da tempo che i neuroni della via ventrale (via del che cosa, what pathway) rispondono a forme geometricamente semplici, come quelle formate dalle intersezioni dei contorni degli oggetti. Come dimostrato dagli studi del neurofisiologo giapponese Keiji Tanaka e colleghi, anche nel cervello delle scimmie macaco sono presenti neuroni sensibili a combinazioni di protolettere come le linee “T”, “Y”, “F” questo perché indicano quelle proprietà invarianti utili al riconoscimento degli oggetti.
Per esempio quando un oggetto ne occlude un altro i loro contorni si incontrano secondo una giunzione a “T”, invece quando ci sono più spigoli in uno stesso vertice formano una configurazione come la “Y” o la “F”. Possiamo avere anche invarianti topologiche: se un oggetto contiene un buco probabilmente la sua proiezione sulla retina sarà un curva a forma di “O”. Da queste proprietà non accidentali (PNA) frequenti in natura, per lo psicologo Irving Biederman, il cervello estraerebbe dalla retina uno schizzo degli oggetti e le loro relazioni topologiche e spaziali.
Perché i caratteri sono come sono?
Perché i segni visivi linguistici hanno quella forma? Data la loro enorme varietà, a prima vista potrebbe sembrare che non ci possa essere una semplice risposta alla domanda. In questo articolo lo scienziato cognitivo Mark Changizi e il suo collega Shinsuke Shimojo confermerebbero la tesi che i segni, che utilizziamo quotidianamente, proverebbero dalla loro frequenza in natura e sarebbero stati scelti culturalmente.
I due ricercatori analizzando le regolarità in 115 sistemi di scrittura hanno scoperto che quasi tutti i caratteri sono formati in media da 3 tratti e questa media non varia in funzione del numero di lettere nel sistema di scrittura.
Il sistema visivo avrebbe acquisito così un alfabeto di forme elementari che sono all’origine della Visual Word Form Area:
Across evolution and development, the visual system of all primates acquires a whole “alphabet” of such shape primitives, presumably because they allow us to immediately encode any new shape that we encounter (Dehaene, 2012)
Quando 4000 anni fa abbiamo iniziato a leggere e a scrivere abbiamo utilizzato neuroni che servivano ad altri compiti. I neuroni specializzati per il riconoscimento del contorno degli oggetti sarebbero stati riconvertiti per il riconoscimento delle lettere e delle parole:
have proposed that writing evolved as a recycling of the ventral visual cortex’s competence for extracting configurations of object contours
Il compito che avevano questi neuroni nel nostro passato evolutivo si è adattato a una nuova necessità ovvero quella di riconoscere la parola scritta e in seguito quella stampata.
Greads: bibliografia
Sitografia
[1] Stanislas Dehaene, Your Brain on Books, Scientific American, 2009
[2] Rossella Ferrari, Cervello E Complessità: Il Linguaggio, Brainfactor, 2011
Scrittura cinese
[1] Federica Ercole, Alla scoperta dei caratteri cinesi, Hanami Blog, 2012
Scrittura geroglifica egiziana
[1] Marwan Kilani Gianola, Corso online di geroglifici egizi. Introduzione, Archeologia Italiana, 2008
Papers
[1] Stanislas Dehaene et al, The Visual Word Form Area: A Prelexical Representation of Visual Words in the Fusiform Gyrus, Neuroreport, 2002
[2] Thad A. Polk, Martha J. Farah, Functional MRI evidence for an abstract, not perceptual, word-form area, Journal of Experimental Psychology, 2002.
[3] Changizi Ma, Zhang Q, The structures of letters and symbols throughout human history are selected to match those found in objects in natural scenes, Am Nat, 2006
[4] Dehaene, Cohen, The unique role of the visual word form area in reading,Trends Cogn Sci, 2011
[5] Stanislas Dehaene, Inside the Letterbox: How Literacy Transforms the Human Brain, Cerebrum, 2013