OnlyFans: da prostitute a sex workers

La  sociologa Giulia Selmi, autrice del saggio “Sex Work. Il farsi lavoro della sessualità”, analizza com’è cambiata nei secoli la percezione sociale delle donne che si prostituiscono, da soggetti devianti a vere e proprie sex workers.

Partendo dalla morale cristiana la prostituzione è stata considerata come una devianza morale delle donne che la esercitavano, tesi rinforzata in Italia dal criminologo Cesare Lombroso e dal suo futuro genero Guglielmo Ferrero nel compendio “La donna delinquente. La prostituta e la donna normale” (1893) in utilizza per la prima volta la categoria di “prostituta-nata”, ovvero il corrispettivo femminile del “criminale nato”, definendola “antropologicamente simile alla donna delinquente”.

Lombroso si concentra così sullo studio dell’anatomia della donna criminale e della prostituta attraverso l’analisi comparata del cranio, del cervello, del viso, delle mani e dei piedi, del ciclo mestruale e della soglia di sopportazione del dolore.
Adoperando questa metodologia di indagine si poteva ad esempio dimostrare che il cervello della donna aveva un peso minore rispetto a quello dell’uomo e questo bastava per accreditarne l’idea dell’inferiorità strutturale e funzionale. Sull’esempio di Lombroso, altri criminologi intrapresero studi analoghi, ad esempio dalle osservazioni di Giuseppe Ciuffo (1877-1916) e Umberto Mantegazza (1859-1948) le prostitute risultavano essere quasi tutte frigide o ninfomani.

Porn Wars

Nel 1982 un gruppo di femministe, tra cui le due antropologhe culturali Carol S. Vance e Gayle Rubin,  organizzarono al Barnard College di New York un dibattito dal titolo “Toward a Politics of Sexuality” per aprire un confronto sulla sessualità femminile.
Le femministe abolizioniste di gruppi quali Women Against Pornography (WAP) di New York e Women against Violence in Pornoghraphy and Media (WAVAW) di Los Angeles colsero l’occasione per accusare le organizzatrici e le partecipanti di essere complici del patriarcato perché promuovevano un’idea di sessualità come strumento di oppressione maschile. Al contrario le femministe pro-sex individuarono nella sessualità uno strumento di emancipazione dal modello patriarcale.
Da questo momento il movimento femminista si sarebbe spaccato in due fronti:  da un lato le pro-sex urlavano “sex work is work” per togliere lo stigma della prostituzione, e dall’altro lato la più famosa attivista anti-porn, Andrea Dworkin (1946-2005), nel suo libro “Pornography: Men Possessing Women”(1981) scriveva che “tutto il sesso è stupro”.
Per la Dworkin le donne sarebbero state davvero libere solo “quando la pornografia non esisterà più” (1981).

Arrivando così a scontri ideologici, che avrebbero dato luogo alle Sex Wars (anche chiamate Porn Wars),  tra i sostenitori dell’anti-pornografia e pro-sex che portarono in un primo momento alla censura di molti film porno, alla rimozione di cartelli pubblicitari e all’ordinanza contro la pornografia dell’ottobre del 1984 nella città di Indianapolis sostenuta dal gruppo di femministe WAP. In seguito Lisa Duggan dal tabloid “The Village Voice” di New York avrebbe sferrato un duro colpo al femminismo anti-pornografia insinuando che l’ordinanza equivaleva a censura.

A Hollywood il gruppo di femministe WAVAW riuscirono a far rimuovere il cartellone pubblicitario del nuovo album dei Rolling Stones in Sunset Boulevard, che ritraeva la modella Anita Russell, legata con delle corde, a gambe aperte, con accanto la frase I’m Black and Blue from the Rolling Stones – and I love it.

Per Susan Brownmiller, giornalista e co-fondatrice di WAP, nel 1975 affermò che la pornografia aveva trasformato le donne in “giocattoli per adulti” e in  “oggetti disumanizzati da usare, abusare, rompere e gettare”.

Due anni dopo l’attivista Robin Morgan riuscì a sintetizzare le posizioni anti-porno nell’affermazione: “la pornografia è la teoria, e lo stupro è la pratica“.
Tesi che era possibile sostenere anche grazie ai retroscena sulla vita della ex pornostar Linda Boreman (1942-2002) che emersero nel 1980 nella sua autobiografia “Ordeal” in cui racconta gli abusi subiti durante le riprese del film “Gola Profonda” (1972) da parte del marito Chuck Traynor (1937-2002).
Nel 1984 in una intervista Linda dichiarerà “praticamente ogni volta che qualcuno guarda quel film, mi vede violentare”.

Infine l’attivista Catherine MacKinnon, nel suo saggio “In Toward a Feminist Theory of the State” (1989), avrebbe scritto: “la pornografia, dal punto di vista femminista, è una forma di sesso forzato, una pratica di politica sessuale e istituzione della disuguaglianza di genere”.

La risposta da parte delle femministe pro-sex è stata una serie di saggi in cui si sottolinea che il pensiero radicale limita la libertà di espressione della donna negandone l’autodeterminazione del corpo: la sua libera scelta e il diritto di esporlo o, anche, venderlo.
L’antropologa queer e attivista Gayle Rubin, famosa per i suoi studi sull’identità di genere, denuncia le femministe anti-pornografia che con lo scopo di porre fine alla violenza sessuale sulle donne stanno semplicemente operando una vera e propria opera di censura.
Partendo dal presupposto che la censura è sbagliata la giornalista e attivista Ellen Willis, con “No More Nice Girls: Countercultural Essays” (1992),  ribadisce la sua posizione contro le femministe anti-pornografia affermando che “as we saw it, the claim that ‘pornography is violence against women’ was code for the neoVictorian idea that men want sex and women endure it”.
Dal 1979 Ellen Willis fu una delle prime voci che criticarono le femministe anti-pornografia tanto da coniare, nel suo saggio “Lust Horizons: Is the Women’s Movement Pro-Sex? ” (1981),  il termine femminismo pro-sex che promuoveva il sesso come una via di emancipazione e di empowerment.
Per le femministe pro-sex la produzione di materiale pornografico e il suo consumo non sono dannosi, ci sono ovviamente dei problemi, ma la soluzione non è eliminare il porno, né tantomeno rimuovere le donne dal porno. Piuttosto coinvolgere maggiormente le donne come produttrici, scrittrici e registe nell’industria del porno come nel caso di Candida Royalle (1950-2015) che a 34 anni, dopo una breve carriera come attrice porno, fondò la “Femme Productions” la prima casa di produzione femminista con sede a New York.

Pornografia femminile

Nel 1983 Royalle fu fra i membri fondatori,  assieme  Annie Sprinkle, del Club 90 il primo gruppo di supporto per le pornostars. Da questa sua esperienza prese spunto per realizzare film porno con trame incentrate sul piacere delle donne, nell’arte della seduzione, nei preliminari e nei rapporti sessuali. Ad esempio Rites of Passion (1988) presenta uomini e donne che scoprono il piacere reciproco attraverso il sesso tantrico. In Three Daughters (1986), le sorelle esplorano la loro sessualità; anche i loro genitori di mezza età riscoprono la loro relazione erotica.

La casa di produzione girò solo 18 film e rimase attiva fino ai primi anni 2000, Vadala riuscì però a dare la possibilità alle attrici di prendere le proprie decisioni creative sul set e di dirigere i propri film.

L’attivista canadese Wendy McElroy, “In XXX: A Woman’s Right to Pornography” , riassumerà la prospettiva pro-sex come “i benefici che la pornografia offre alle donne superano di gran lunga i suoi svantaggi”.
Durante la lotta contro l’ordinanza MacKinnon-Dworkin le femministe pro-porno furono le prime ad affermare che il lavoro sessuale non è diverso da altri tipi di lavoro, un argomento che è particolarmente importante perché ne consegue che il set porno, come qualsiasi altro posto di lavoro, dovrebbe essere sicuro , regolamentato e libero da discriminazioni.

Sex work

Grazie al movimento pro-sex inizia a crescere la consapevolezza che le persone che lavorano nell’industria del sesso non sono vittime, ma persone che sanno compiere scelte autonome, personali. Per questo il sex work, che sia prostituzione, aprire un profilo OnlyFans, o girare film porno, dovrebbe essere trattato come ogni altro tipo di lavoro.  Inoltre, nell’industria del sesso non ci sono solo donne, ma anche uomini, non-binary e queer in generale, aprendo così il dibattito sull’identià di genere come aveva già fatto l’antropologa Gayle Rubin.

L’idea di sex work emerge dalla volontà delle prostitute di assumere un ruolo in campo politico, organizzandosi per esempio in associazioni,  a dispetto del fronte abolizionista che non cessava di rappresentarle come vittime del sistema patriarcale.
L’attivista e artista Carol Leigh, nota anche come The Scarlot Harlot, aveva letto l’opera “Language and Women’s Place” della linguista Robin Tolmach Lakoff  ed era rimasta colpita dalla possibilità di poter utilizzare le parole come strumento di attivismo linguistico, coniando nel 1978 la parola sex work come segno dell’inizio di un movimento che “riconosce il lavoro che facciamo piuttosto che definirci per il nostro status”.

“Dopo molti anni di attivismo come prostituta, di lotte contro lo stigma sociale, mi ricordo come mi sentivo potente ad avere una parola per descrivere questo lavoro che non fosse un eufemismo”.

Carol iniziò a diffondere la nuova parola partendo dal suo spettacolo del 1980 “The Demistification of The Sex Work Industry”, ma apparve sulla carta stampata solo nel 1984 in un articolo dell’Associated Press Newsire e iniziò a diventare di uso comune solo nel 1987 con la pubblicazione della raccolta di saggi dal titolo Sex Work: Writings by Women in the Industry” di Frédérique Delacoste e Priscilla Alexander.
Nel saggio “Inventing Sex Work” Carol ci racconta di come abbia iniziato a partecipare agli eventi organizzati dall’associazione Coyote (Call Off Your Old Tired Ethics) con un sacchetto di carta in testa che diceva: “questo sacco di carta simbolizza l’anonimato a cui sono costrette le prostitute”.

Coyote era un’associazione fondata dalla femminista Margo St. James (1937-2021) nel 1973, con sede in California, che si occupava dei diritti delle prostitute: fornendo servizi legali contro gli abusi e gli arresti della polizia, metteva a disposizione medici e ginecologi. In occasione della festa della mamma, due settimane dopo aver fondato Coyote, Margo ribadì il perché era nata l’associazione con un comunicato stampa: “le puttane non hanno bisogno di essere salvate da se stesse ma piuttosto dagli uomini che insistono per metterle in prigione!” .

L‘attrice porno Annie Sprinkle riconosce a Margo che la “gran parte della cultura sessuale positiva di oggi è nata dall’influenza di Margo” dai workshop, eventi, pubblicazioni per educare il pubblico sulla prostituzione che venivano organizzati. In uno di questi eventi si sarebber incontrati anche Carol e Priscilla decidendo di collaborare con l’associazione.
Sebbene vivesse a San Francisco Margo aiutò il movimento per i diritti delle prostitute a crescere a livello nazionale. Nacquero così le associazioni: Pony (Prostitutes of New York), Hire (Hooking is Real Employment) ad Atlanta e Puma (Prostitutes Union of Massachusetts).

Sitografia

[1] Jacob Bernstein, How OnlyFans Changed Sex Work Forever, New York Time, 2019
[2] Matilda Boseley, ‘Everyone and their mum is on it’: OnlyFans booms in popularity during the pandemic, The Guardian, 2020
[3] Lydia Caradonna, Bella Thorne, we sex workers need more than your OnlyFans apology – we need your allyship and action, Indipendent, 2020
[4] Ellie Harrison, Cardi B launches OnlyFans account for ‘behind the scenes content’ and ‘glimpses into personal life’, Indipendent, 2020
[5] Jon Blistein, Bella Thorne Apologizes to Sex Workers After OnlyFans Uproar, Rolling stones, 2020
[6] Giulia Marchina, Giulia Zollino, la sex worker che fa divulgazione su Instagram: «Riappropriamoci del termine “puttana”» – L’intervista, Open, 2020
[7] Claudia Ska , Giulia Zollino vuole farvi capire che la prostituzione è un lavoro come un altro, Rolling Stones, 2021